Il nostro viaggio – Il viaggio e il sogno

Via con noi

Il viaggio e il sogno

Racconto

Alessandro D’Emilio (4H)

     Eravamo appena scesi dall’autobus, davanti la stazione di Sulmona. L’ora di viaggio era stata solamente la partenza. Anche con la mente addormentata, a causa dell’orario prettamente mattiniero, eravamo riusciti a destarci appena saliti sul mezzo. Finito l’appello e preso i posti io e i miei compagni avevamo deciso di rilassarci completamente e goderci ogni singola parola di questa giornata. La partenza era stata ottima, come la musica che l’ha accompagnata; davvero adeguata.

     Ero in attesa di prendere il mio zaino, come tutti i ragazzi che erano con me, infatti notai con profondo fastidio che c’era la fila davanti il bagagliaio del bus. Non vedevo l’ora di entrare in stazione o ancora meglio in treno, mettermi le cuffie, prendere il mio diario di bordo e lasciarmi trasportare dalle immagini fuori il finestrino. Era davvero troppo che non viaggiavo.

     “Ale puoi prendermi lo zaino per favore, sono già un paio di volte che ti chiamo ma ti svegli?”, feci un balzo all’indietro risvegliato da quella pace dalla voce di uno della compagnia. Mi voltai per vedere chi fosse e potei osservare la faccia di Andrea abbastanza infastidita come me da questa fila, che era intasata da due ragazza buttati nel bagagliaio come due minatori alla ricerca di chissà cosa. Con modo brusco li spostai prendendomi i loro insulti, ma riuscendo a recuperare anche i nostri due zaini.

     “Ma che combinavano davanti quei due” mi chiede Andrea. Risposi on una scrollata di spalle, non avevo voglia di inquinare l’aria quella mattina con le mie parole. Ci avviammo nel corridoio luminoso che accompagna i viaggiatori dall’entrata della stazione fino alle rotaie, dando il benvenuto alle persone con una luce alla fine di esso. Varcata la soglia fui accecato per un attimo ma qualche secondo dopo riuscii a vedere che il mio amico era già corso verso gli altri miei compagni, che si trovavano vicino ad un distributore automatico di cibo e bevande. Sentii da lontano su cosa stavano discutendo e decisi di non immettermi in una conversazione del genere. Era giorni che si discuteva a proposito della sconfitta dell’Italia nel mondo calcistico. Non avevo mai provato interesse per il calcio, quanto meno in quel momento. Distolsi lo sguardo dai miei compagni e vidi con mio grande piacere che il treno era in arrivo. L’arrivo in stazione del mezzo fu accolto da un enorme applauso, quasi da cinema la scena: man mano che il treno entrava, l’ombra su di lui avanzava, come se stesse calando la notte, come se si stesse dipingendo di nero.

     Era colorato di un marrone chiaro come a richiamo del paesaggio che vedeva ogni giorno e c’era una linea rossa che separava questa parte inferiore da quella superiore di colore verde scuro, come se si volesse mimetizzare dai boschi. Rimasi davvero sorpreso da ciò. Non molto treni mi avevano stupito per la loro bellezza particolare, a prima vista, ma questo era diverso. Era accogliente solo dallo sguardo. Si fermò con un fragoroso fischio che superò l’applauso della gente e cosa più importante per me lo interruppe. Dal treno si aprirono diverse porte dalle quali scesero gli “hostess”. Si misero a semicerchio davanti a noi e ognuno di presentò con i propri nomi e alla fine esordirono in coro con l’ultima frase, la più importante: “Il treno è a vostra disposizione!”.

     Con un sorriso stampato in faccia feci per salire ma al primo gradino fui fermato dalla mia compagnia che da lontano mi facevano cenno di occupare il posto anche per loro. La cosa mi rendeva felice perché così potevo scegliere il posto migliore per osservare l’esterno e godermi il viaggio.

     Ero appena salito e ancora muovevo un passo. Ero rimasto a fissare gli interni completamente in legno e notai delle che non vi era traccia di tecnologia o comodità moderne: prese per i caricatori erano assenti e i sedili erano in legno, non erano presenti tavolini o cestini e le tende erano vecchie e rattoppate del colore verde del treno. Era fantastico. Tutto quanto. A risvegliarmi dalla mia catalessi fu l’hostess, che mi urlò contro di muovermi. Girandomi vidi che quel poveretto stava reggendo una signora non proprio leggere. Con una leggera smorfia mi avviai di vagone in vagone fino a raggiungere il vagone numero 7 quello che era assegnato al mostro gruppo. Presi il primo posto sulla sinistra appena entrati e mi attaccai al finestrino. Ero quasi geloso del posto. Da li potevo osservare chi entrava e chi usciva dai vagoni in anticipo rispetto tutti gli altri e soprattutto c’era la visuale esterna in primo piano. Qualche minuto dopo fui raggiunto da Andrea e tutti gli altri che si misero nella mia stessa postazione. Fortunatamente avevano finito a parlare di calcio e adesso anche loro erano colti dall’entusiasmo della partenza.

     “Sei pronto?” mi chiese Andrea. “Assolutamente” risposi sorridendo. “Ci sono i caricatori?” esordì Mario. Mi limitai a rispondere con la mia solita scrollata di spalle ma subito ci pensò Alessandro a rispondere. Un attimo di silenzio che fu interrotto poco dopo dalla fatidica domanda, posta da Andrea, che ci trasportò subito nella vita reale:” Quando abbiamo la prossima verifica ragazzi?”. Un lamento generale accolse la sua risposta. Mario si lamentò subito della sua domanda e Alessandro gli tirò un piccolo schiaffo a metà mano sulla nuca in modo da non provare fastidio né dolore. Prima che lui potesse rispondere uno sbuffo dall’esterno interruppe la conversazione. Ci guardammo in faccia e con un sorriso smagliante capimmo cosa stava per succedere. Il treno stava partendo. La stazione si muoveva e piano piano il treno nero stava riassumendo i suoi colori naturali e da buio diventava giorno. Ci stavamo affacciando sempre di più sulla natura. Stavamo prendendo sempre di più velocità. Nel mentre che tutto il mondo si muoveva attorno a noi, i nostri volti erano attaccati al finestrino per cogliere ogni singolo movimento. “E adesso che si fa ragazzi?” chiese Mario, “Nulla, aspettiamo” questa volta risposi io, e non mi feci mancare la mia solita smorfia a fine frase.

     Il treno era ormai lontano dalla stazione ed eravamo entrati da molto nella natura più fitta. I miei amici stavano con il loro cellulare a sentire musica mentre io stavo da un bel po’ con il mio diario di bordo sotto mano e con la faccia ancora volta verso l’esterno. Potei notare meglio e con più calma gli interni del treno: i sedili in legno erano assolutamente scomodi, duri e freddi e a malapena entravo e i finestrini erano non del tutto puliti e come le porte che separavano i vagoni. Ma almeno le tende non destavano sospetti di igiene, anzi appoggiarci la testa non era male a dire la verità. La natura fuori era come divisa, come se fossimo circondati da due biomi: alla mia destra la neve regnava sovrana e gli alberi erano ancora spogli, alla mia sinistra invece il paesaggio si affacciava ad un ambiente spoglio, che dava su grosse colline coperte d’erba e senza presenza di case. Il mio sguardo rivolto verso l’esterno fu distolto dall’arrivo della stessa hostess che mi avevo richiamato alla stazione. Entrò nel nostro vagone e dopo essersi presentato inizio con il narrarci la storia di quelle colline risalente alla seconda guerra mondiale. Ci parlò della linea Gustav o la cosiddetta linea invernale. Era una linea fortificata approntata in Italia con disposizione di Hitler e divideva la penisola italiana in due parti: al nord il territorio in mano alle truppe tedesche e a sud gli Alleati. Non mi era mai piaciuta la storia moderna, si affacciava troppo sulla politica e la trovavo davvero noiosa. Ascoltai ben poco delle parole dell’hostess e fortunatamente dopo un paio di minuti se ne andò. Sbuffai e girai gli occhi all’indietro per la noia. Ci mancavano all’incirca quaranta minuti per Castel Di Sangro e i miei amici sembravano dei morti viventi. Non parlavano, né scherzavano. Nulla. Avevo il cellulare in mano e ancora avevano scritto nulla sul loro diario di bordo mentre io stavo per finire le pagine. Noia. Noia e altra noia. Così tanta che iniziai a vedere nero, una sensazione strana iniziò a starmi addosso e ad indebolirmi. Le tende erano comode e la mia testa sembrava non avere più ossa che la reggevano e all’improvviso più nulla. Nero.

     Mi girava la testa. Vedevo ancora nero e avevo l’udito ovattato. Mi muovevo a stento e mi sentivo molto debole. Una luce accecante entrò dal finestrino come per cacciare quel buio dai miei occhi. Misi di getto le mani davanti per pararmi la vista. Non ero mai stato colpito così forte dalla luce solare. Faceva male agli occhi, così forte che mi buttai sul sedile. “Bel risveglio” pensai. Ero così preso dal ripararmi che non mi accorsi che il vagone era vuoto. Mi girai di scatto. Il cuore iniziò a battere forte e velocemente. Nessuno. Tutte le persone assenti e anche i loro oggetti personali. Il silenzio regnava sovrano. Quel silenzio tanto desiderato adesso mi spaventava. C’era solo un giubbotto ma non era il mio, quella mattina non lo indossavo. Era di Mario. Rovistai nelle tasche ed erano vuote, c’era solo il suo diario di bordo. Lo aprii ed era vuoto. Lo rimisi nella tasca e mi misi Il suo giubbotto in spalla e iniziai a cercare di vagone in vagone qualche anima viva, mentre il treno proseguiva. Il paesaggio era mutato e questa volta il treno si avventurava all’interno di un fitto bosco. Senza neve, il paesaggio questa volta appariva indistinto. Arrivai alla motrice. Feci per aprire la porta ma era chiusa. “C’è qualcuno?”. Nessuna risposta. Bussai tre volte aumentando man mano la forza fino a che sentii un rumore provenire dall’altra parte. La porta si spalancò verso di me e uscii un signore alto, magro e con una folta barba nera. Aveva addosso una camicia a quadri rossa con strisce bianche, sporca di fuliggine e carbone. Indossava un cappello grigio, logoro anche quello. Mi guardò con i suoi occhi penetranti e con le occhiaie: “Hai bisogno di qualcosa ragazzo?”. Quasi allibito dalla domanda che mi risultava al dir poco scontata dissi: “Sul treno non c’è più nessuno e sono solo? Che è successo?”. Il signore si girò di scatto e tornò alla guida del treno facendo ciondolare le bretelle attaccate ai pantaloni. “Sono scesi tutti e tu sarai solo fino a quando non ritorneremo”. La risposta mi spaventò. Avevo programmato tutto, ogni singola cosa da vedere a Castel di Sangro. “Dannato hostess della storia” pensai. Adesso però c’era un’altra domanda che mi tormentava. Chi era il signore del treno.

     Entrai nel vagone. Era completamente nero e su ognuno dei due lati vi erano 4 finestre posizionate parallelamente una di fronte l’altra. Era una stanza vuota. Nessuna macchina per comandare la locomotiva né tantomeno qualcosa che potesse sporcare di carbone il vestito del capotreno. C’era qualcosa di strano ma ciò l’avevo già intuito.

     “Ragazzo” disse subito, e dopo una pausa “vieni con me”. Andò verso una scala, sul fondo della locomotiva, bloccata da una botola posta sul soffitto. Fece per aprire e subito una folata d’aria immensa mi investì. Mi stava portando fuori, sul tetto del treno. Uscii insieme a lui. Non riuscivo ad aprire gli occhi per la velocità del treno. “Ma perché va più veloce?” gridai. Il vecchio mi guardò con uno sguardo vuoto, chiuse la botola a chiave e si avvicinò verso di me. Ero immobile, con una mano davanti gli occhi per pararmi dal vento. Mi afferrò di scatto al colletto della maglia, provai a difendermi ma togliendo la mano vidi che il treno non era più una semplice locomotiva. Stava camminando in mezzo al bosco senza rotaie. Era come se volasse, come se fosse un treno fantasma.

“Chi sei?” urlai. Il vecchio mi guardò quasi dispiaciuto e poi disse: “Ci rincontreremo”. E d’improvviso mi sembrò di volare. Non sentivo più nessun appoggio sotto i miei piedi e mi resi conto che non ero poi sul treno ma stavo rotolando giù per quel fitto bosco. Era una discesa infinita e il mio corpo non riusciva a fermarsi. Stavo rotolando come un enorme macigno quando lo si scalcia giù dal dirupo di un monte. Tenni gli occhi chiusi per paura di urtare qualche albero e la bocca serrata per non far entrare il terriccio. All’improvviso urtai sul terreno, e rimasi quasi senza fiato. Aprii gli occhi e vidi che il cielo era nuvoloso. “Fa freddo” pensai. Mi alzai in piedi ma non ci riuscii subito perché la mia mano affondò nel terreno. Era morbido e gelato al tatto. Mi strofinai gli occhi e mi resi conto di essere sulla neve. Un paesaggio completamente innevato. Mi guardai attorno per vedere se ci fosse qualche riparo dal gelo. L’unica salvezza era il giubbotto di Mario, che avevo tenuto in mano, steso li per terra. Lo presi e me lo misi subito. Era bagnato un po’ dalla neve ed era un po’ più pesante, ma non era il bagnato a renderlo tale, ma la tasca, adesso piena. Ci misi la mano e cacciai fuori il peso. Era una bussola, grande tanto quanto il palmo della mia mano. La osservai per bene e vidi che la freccetta rossa si muoveva verso l’Est. “Ho una meta” pensai. E guardando verso quella direzione vidi una linea infinita che poneva fine a questo paesaggio; era la ferrovia. Mi misi immediatamente a correre in mezzo la neve. La mia euforia era tale che quando i piedi affondavano non li cacciavo più, ma facevano tipo spazzaneve tracciando così una linea per terra profonda. “Ci sono quasi”. Mi stavo avvicinando sempre di più, ma ad un tratto sentii qualcosa sulla mia fronte. Qualcosa di freddo che poi mi colò su tutto il viso. Alzai lo sguardo al cielo e vidi cadere dei fiocchi di neve. Era da anni che non nevicava, a causa del riscaldamento globale tutte le stagioni erano diventate più calde. “Ehi” una voce femminile alle mie spalle mi distolse dal mio pensiero triste ma veritiero. Mi girai di scatto e vidi con mio enorme spavento che una signora in abito bianco color neve era fissa sul terreno prima tracciato con i solchi. “Ma tu da dove…” non riuscivo a finire la frase. Ero troppo confuso, prima il signore del treno e adesso questa. Perché io? Perché ero finito li? E loro chi erano? Queste tre domande mi frullavano in testa da prima e per un momento vidi nero per l’agitazione. La signora poi mi guardò e con una risata gentile mi disse: “Ragazzo, calma. Risponderò alla maggior parte delle tue domande, non avere paura. Ma ti assicuro che una volta risposte a queste ne avrai altre.”

     Era circa sulla cinquantina. Era una bella donna, aveva poche rughe in faccia con qualche ciocca di capelli grigi che faceva risaltare la folta chioma liscia nera. Aveva occhi blu come il cielo le sere d’estate e sotto di questi delle lentiggini appena visibili ma molto graziose. Era snella fisicamente con un seno ben posto per la sua età. “Siediti ragazzo”. Ci sedemmo sulla neve, anche i suoi modi erano graziosi e la sua maniera di parlare metteva sicurezza. Appena seduto respirai a fondo, e poi domandai: “Chi sei, e dove mi trovo?”. “Io sono Roberta Palena, e questo ragazzo mio è il paesaggio che regnava sovrano prima del cambiamento climatico”. In effetti negli anni passati non solo la neve non si era più vista e le temperature aumentate, ma si erano verificati mesi anche senza alcuna precipitazione e quindi di siccità. Tutto a causa nostra. “Oramai il pianeta è una sauna. Le temperature aumentano e oltre che a mettere in rischio gli animali con lo scioglimento dei ghiacciai, si mette anche a rischio l’ambiente. La natura qui, non è più la stessa. Non passava nessun treno prima ragazzo, non ci sarebbe stata la minima possibilità. Guardati intorno.” In effetti il paesaggio era tutto bianco rispetto alla neve visibile dal treno. Ci fu un attimo di pausa, nel quale mi accorsi che i fiocchi stavano aumentando gradualmente e adesso facevano male quando venivano a contatto con il volto. “Che dovrei fare io? Per tutto questo. Perché io?” gridai. Non era più una semplice nevicata ma era diventata una tempesta. “Da qualcuno si deve pur iniziare”. Fu l’ultima frase che mi disse prima di scomparire del tutto. Il cielo era nero, mi voltai di scatto e vidi che da dove ero venuto stava giungendo una bufera vera e propria, e se già così provavo dolore a contatto con i fiocchi di sicuro non volevo provare a starle nel mezzo. Iniziai a correre. Facevo fatica a correre. La neve era diventata simile ad una palude. I miei passi affondavano sempre di più e man mano cresceva il rombo della bufera alle mie spalle. È vicina”. La rotaia era lì a due passi da me, ma anche la bufera. Non vedevo più a causa della neve sulla faccia, ma riuscivo a sentire anche un altro rumore oltre quello dietro le mie spalle, e sembrava provenire dalle rotaie. Non sapevo che fare, la mia testa non riusciva a ragionare con la vista offuscata e i due rumori che mi stavano uccidendo la testa. Ero affianco la linea che poneva fine a quel posto. Con un salto in corsa disperato mi buttai dall’altra parte sperando come per magia che la bufera si fermasse. E così fu.

     Ero a terra ancora scosso da tutto. Il ghiaccio in faccia si stava sciogliendo e piano piano stavo riacquistando la vista. Adesso c’era solo un unico rumore alle mie spalle. Mi girai piano piano tutto zuppo e vidi un lungo treno, quasi infinito, scorrere a gran velocità lungo la rotaia. Come se fosse uno scudo, un grosso muro separatore. “Io non ho più parole” e con un’alzata di spalle mi voltai sul nuovo scenario che mi si presentò davanti. Non c’era più il paesaggio innevato. A dire il vero non c’era proprio la neve e il paesaggio non era freddo. Davanti i miei occhi si stagliava un’enorme collina tutta verde colorata con fiori diversi. Soffiava un leggero venticello che però a contatto con il giubbotto bagnato non era il massimo, ma ci pensava immediatamente il sole ad asciugare il mio corpo e le mie vesti. “Evidentemente la rotaia non serve solo per farci passare il treno sopra, ma separa anche questi due ambienti”. Ripensai al treno, e mi accorsi che il paesaggio nel quale mi trovavo era quello che si trovava alla mia sinistra. Ne ebbi la conferma solo quando salii la collina per vedere oltre e vidi una immensa distesa di colline tutte ammassate fra di loro. Ma era diverso. E a rendere l’ambiente non del tutto simile a quello del treno era la presenza degli animali, che dal vagone non erano visibili. C’erano mucche al pascolo, numerosi uccelli che migravano nel cielo non più tempestoso, ma limpido. Era diverso. Era come se tutto fosse più felice. Mi avviai verso il pascolo e mi accorsi che le tasche erano ancora pesanti. “La bussola” esclamai. La cacciai subito fuori e vidi che la freccetta rossa indicava proprio davanti a me, verso una grande montagna, una montagna alta dal quale si elevava una sorta di muro di separazione. La osservai meglio. Avevo capito la mia prossima destinazione. La linea Gustav era li che mi attendeva.

     Ero ormai giunto vicino il pascolo, me ne accorsi dal forte odore di letame e di mucca. Erano di più di quanto si potesse vedere da lontano. Ma in mezzo a loro si stagliava una figura abbastanza diversa. Non aveva macchie, ma una folta criniera e una lunga coda. Era un cavallo. Mi avvicinai per accarezzare l’intruso. “Era parecchio tempo che non ne vedevo uno”. In effetti gli animali in montagna non erano più molto visibili a causa del disboscamento di alcune aree e dall’inquinamento per via di diverse centrali che si costruivano in montagna, soprattutto per provare a portare la rete mobile anche in zone più sperdute. “Però è davvero un peccato perdere tutto ciò”, era stato da sempre il mio pensiero fisso. Mi distolsi dai miei pensieri che per un momento mi avevano rapito e ripensai alla linea Gustav, e alla sua enorme distanza. Distolsi lo sguardo anche da quella zona irraggiungibile e mi rimisi ad accarezzare il cavallo. “Che stupido che sono”. Lui era la soluzione, l’equino. Non avevo mai montato a cavallo prima di quel momento, né tantomeno sapevo come manovrarlo, ma poi ripensai alla marea di cose senza senso accadute prima e al treno-muro, e ciò mi incoraggiò nel provarci. Non era molto alto ed era piuttosto docile, infatti salii senza alcun problema. Non rimaneva altro che dirigerlo verso la direzione giusta. Provai con un buffetto sulla pancia, ma nulla, provai anche ad urlare qualche verso che si sente di solito nei film per far galoppare il destriero ma nulla. Nel momento in cui avevo esaurito tutte le mie idee e ormai il mio corpo era steso su quello del cavallo, ecco che si mosse. Avevo capito cosa fare, dovevo attaccarmi al collo e stare fermo. Era come se fosse programmato, come se mi stesse aspettando. E iniziò la sua lunga cavalcata verso la destinazione, per tutte le colline. Il vento mi accarezzava la faccia ed ero tutto asciutto quindi non mi provocava più nessun tipo di fastidio. Il paesaggio però non era infinito, ma era delimitato. Proprio mentre stavamo sopra una collina mi girai verso il sole che piano piano stava tramontando e vidi, illuminata una centrale nucleare. “Che amarezza” pensai. Proprio in quel momento mi venne da riflettere sulle parole di Roberta, la signora della neve. Mi misi comodo sulla schiena del cavallo e ripensai a quelle parole. Guardando quell’ammasso di cemento, forse capii il senso di quelle parole. D’improvviso diventò tutto nero, una sensazione strana iniziò a starmi addosso e ad indebolirmi. Il collo del cavallo era soffice e comodo e la mia testa sembrava non avere più ossa che la reggevano e all’improvviso più nulla. Nero.

     Il terreno era di nuovo freddo. Però questa volta non ci stava né la neve né l’erba. Era arido, senza alcun filo d’erba. La mia faccia era appoggiata sulla breccia e il mio braccio destro era posizionato su un masso. Aprii gli occhi e vidi il cielo nero. Era tutto nuvoloso però senza alcun tipo di precipitazione. Provai a rialzarmi provando un dolore lancinante al collo. “Ma come sono sceso?”. Sembrava come se una persona mi avesse preso e mi avesse appoggiato per terra, senza darmi alcun fastidio, senza alcun disturbo. L’ultima cosa che ricordavo era quel magnifico tramonto e quelle maledettissime costruzioni umane. Però sapevo dove mi trovavo in quel momento. Ero sulla montagna, vicino la mia meta. La linea Gustav. Presi la bussola per vedere dove si dirigeva la freccia e vidi che puntava proprio di fronte a me. Dovevo solo andare avanti. Alzai lo sguardo e vidi che poco più avanti si innalzava un grosso muro con delle trincee attorno. Mentre andavo verso la mia meta l’aria si faceva sempre più fredda e sembrava dover piovere da un momento all’altro. Sembrava notte fonda, ma non era visibile nemmeno il cielo coperto ormai dalle nuvole nere cariche di rabbia. Qualche tuono accompagnava la mia camminata che ad un certo punto si arrestò. Ero arrivato. Il silenzio regnava sovrano e affianco ad una parte del muro rotto si apriva una grossa voragine che portava alle belle pianure in cui ero stato. Mi affacciai a malapena e vidi che non c’era appiglio per salvarsi da una caduta del genere. Sentii dei passi. Mi girai immediatamente. Vidi una figura familiare giungere verso di me. Aveva delle bretelle che ciondolavano sui lati dei fianchi e la sua faccia logora era riconoscibile. Era il capotreno. Si avvicinava con fare calmo, ma quel tempo rendeva tutto più minaccioso. “Ce l’hai fatta”. Non risposi. “Adesso avrai le tue risposte, o almeno alcune”. “Chi sei tu?” Io sono Marco di Sangro, e sono capo di questo treno” “Cosa ci faccio io qui?”. Prima di rispondere tentennò: “Nessuno nella tua famiglia ti ha mai raccontato di avere qualche amico capotreno?”, ripensai più volte a questa domanda e all’improvviso mi venne in mente un racconto di mio nonno su un suo amico che aveva avuto un’idea straordinaria, ovvero quella di fondare la Transiberiana d’Abruzzo in modo tale da risaltare alcuni paesaggi non valorizzati. Era lui. L’amico di cui mi aveva accennato. “Ma perché io sono qui? Perché io?” le mie urla cercavano di sovrastare i tuoni, mentre i suoi passi si facevano più vicini. Il suo sguardo non sembrava minaccioso ma in pena. Non per me. “Ragazzo, c’è una cosa che tuo nonno non ti ha mai detto. Io e lui litigammo tempo fa per una donna. E quella donna, era tua nonna. Eravamo tutti e due innamorati di lei”. Non avevo mai conosciuto mia nonna, era morta all’età di 60 anni e foto sue non ne avevamo. Era considerata dalla famiglia una donna dal carattere particolare, una fuori dagli schemi insomma. Attiva manifestante, si trovava sempre in piazza, ogni volta di una città diversa, per lottare a favore dell’ambiente e dei diritti umani. Alla fine fu colta da un tumore all’età di 58 anni, e riuscì a vivere per solo due. “Quando stava male tua nonna, era sola nella sua camera da letto. Nessuna visita per giorni. Solo tuo nonno, e io. Un giorno mi chiese di badare a suo nipote, dato che suo figlio era ormai cresciuto e aveva preso strade totalmente diverse dalla sua. Mi chiese di indirizzarti nella giusta via. Quella della salvezza del pianeta. Della gioventù. L’uomo sta cambiando radicalmente il pianeta e stiamo arrivando ad un punto di stop per tutti”. Era ormai vicinissimo a me e riuscivo a sentire il suo respiro sulla mia fronte. Il suo sguardo era penetrante ed era carico di dolore. Io ero senza fiato. Tutte quelle cose avevano senso, ecco perché io mi trovavo li ed ecco perché ho conosciuto loro. “Ma allora dove sono?” pensai. La figura del capotreno mi stava davanti come un orso in piedi. “Da qualcuno si deve pur iniziare”. Le sue braccia forti mi spezzarono il fiato e i miei piedi si staccarono da terra. L’aria era diventata gelida, come lo sguardo di Marco. I tuoni aumentavano sempre di più di intensità, accompagnando la mia caduta. Era tutto al rallentatore, tutto quello che avevo vissuto dal risveglio. E adesso mi ritrovavo a cadere, un’altra volta. Chiusi gli occhi. Un solo suono rimbombava nella mia voce, non più il tuono, era quella frase. “Da qualcuno si deve pur iniziare”. E poi nulla. Un’altra volta nero.

     Una fragorosa risata interruppe il buio. Il pavimento era freddo, riconoscevo quel materiale, era legno. Provai a muovere le mani, erano tutte indolenzite e le mie gambe formicolavano. “Dormito bene principessa?” era la voce di Andrea. Provai ad aprire gli occhi. Una luce mi accecò, però questa volta non faceva male. Era il flash di un cellulare, puntato sulla mia faccia. “Saluta gli invitati al tuo diciottesimo” e poi una fragorosa risata da parte di tutto il vagone. Ero per terra, steso a pancia all’aria. Mi alzai sorridendo ma ero ancora in trance per tutto. “Quanto ho dormito?” chiesi ad Andrea. “Un paio di minuti, movimentati direi”, lo guardai con aria strana, “Non ti sei stato fermo per niente Ale, poi ti sei messo ad urlare un nome, mi pare fosse Roberta. Per non dire di tutte le facce strane”. La verità è che non ricordavo nulla di tutto quello che mi stesse dicendo. Chi è Roberta? Cosa ho sognato? Solo una cosa ricordavo vagamente, una frase. L’improvviso frenare del treno distolse la mia mente da questo pensiero. Eravamo arrivati a Castel Di Sangro. Prendemmo gli zaini e scendemmo subito dal treno. Mentre mi trovavo sul vagone d’uscita mi imbattei in un piccolo riquadro con una foto e una breve descrizione sotto che citava : ”MARCO DI SANGRO, CAPOTRENO E IDEATORE DELLA TRANISBERIANA D’ABRUZZO”. C’era anche una foto, rappresentante un uomo con le bretelle ciondolanti e con la maglietta sporca, ma felice. Era una figura assai familiare ma uno spintone mi portò avanti e mi fece scendere. L’aria era fresca, con il sole che batteva senza provocare alcun fastidio. Appena scesi decidemmo di andare all’info point proprio di fronte la stazione.

     “Potrebbe consigliarci per favore cosa visitare?” chiesi. Il signore mi guardò con aria affranta. “Ragazzi, siete venuti davvero tardi; e abbassò lo sguardo. “Mi scusi ma ho visto su internet e ci sono cose da visitare cosa vuol dire è tardi?”. Il signore rialzò lo sguardo: “Da qualche giorno a questa parte sono iniziati dei lavori di emergenza per portare la rete mobile qui in paese. E non sono accessibili le zone che portano alle chiese o sulla cima del monte. Perlopiù hanno abbattuto diverse case antiche poiché troppo vecchie per iniziare a costruire chissà quali diavolerie. Ero allibito da questa affermazione. Eravamo prontissimi per iniziare la scampagnata tutti insieme e adesso non sapevano dove andare. “Dai ragazzi non abbattiamoci. C’è un monte poco lontano da qui e da come ho capito le vie per raggiungerlo sono libere” disse Andrea. Era la nostra nuova meta adesso. Raggiungemmo la cima del monte dopo qualche ora. Da lì si vedeva la città in tutto il suo vecchio splendore. Era una città antica, con numerose chiese e vicoli nei quali perdersi. Era come piaceva a me. Una città calma. Se non fosse per quei lavori in corso. Nel tragitto avevamo notato numerosi poster propaganda. Alcuni a favore di questo cambiamento strutturale delle città in generale, altri contro. Ero seduto da solo mentre gli altri mangiavano e osservavo tutto ciò che mi circondava.

     “La verità è che è solo colpa nostra. Siamo noi e solo noi a scegliere se fare del bene e del male e a chi o a che cosa. Non siamo obbligati da nessuna divinità, che sia buona o cattiva. Sono le nostre decisioni, se giuste o meno a portare ad altre eventi. Effetto farfalla. E siamo noi, in questo caso a decidere se raggiungere il punto stop del nostro pianeta e porre fine anche a noi. Alla fine, si può aggiustare tutto. Alla fine, da qualcuno si deve pure iniziare, no?”